La Camera vota all’unanimità la riforma per i Testimoni di Giustizia: un atto dovuto a cittadini che sono “oro” per la Repubblica. Finalmente una legge dedicata esclusivamente ai Testimoni di Giustizia, per evitare ogni confusione con i collaboratori, una legge che prevede la eccezionalità del trasferimento in località segreta, perché le persone oneste devono restare a casa loro. Sono i mafiosi che se ne devono andare. Le misure a sostegno del Testimone saranno “cucite addosso” alla persona, si introduce la figura del “referente”, si introduce l’indennizzo forfettario, si amplia la possibilità di assunzione nella PA, si estendono le misure a sostegno della aziende sequestrate previste dalla riforma del Codice Antimafia anche alle aziende dei Testimoni. Si prevede la possibilità di assegnare loro beni confiscati alla mafia. Si assicura il ricorso all’incidente probatorio e alla video conferenza per ridurre al minimo l’esposizione in processo del Testimone, si garantisce la continuità dell’operatività della Commissione Centrale, grazie all’introduzione della figura del vice presidente. Un bel lavoro cominciato 3 anni fa in Commissione Antimafia e che rappresenta un doveroso riconoscimento per i sacrifici sopportati dai cittadini per bene che scelgono lo Stato e la denuncia. Ora il Senato non la metta in un cassetto"

“La mafia non è più quella di una volta (ma resta quella di sempre)”, convegno organizzato a Montecitorio da Davide Mattiello, onorevole PD e membro della Commissione Antimafia, si è tenuto lo scorso 22 febbraio con l’obiettivo di riflettere, a 25 anni dalle stragi di Palermo, su come sia cambiato il fenomeno mafioso e sull’adeguatezza dell’attuale quadro normativo, dal 416 bis alla legge Anselmi.

Per affrontare la complessa tematica sono stati invitati il professor Isaia Sales, storico di mafia; Giuseppe Lombardo, Sostituto Procuratore della DDA di Reggio Calabria; Alessia Candito, giornalista di Repubblica; Fabio Repici, avvocato difensore della famiglia di Bruno Caccia e di Salvatore Borsellino ed il Vicepresidente della Commissione Antimafia, Claudio Fava.

Abbiamo deciso di pubblicare i loro interventi, convinti del valore della conferenza e delle riflessioni portate dai relatori.

Il convegno è stato una tappa del percorso intrapreso da Davide Mattiello per rafforzare la legge Anselmi, promulgata nel 1982, per colpire le associazioni segrete, adattandola al contesto attuale, nel quale mafie e massonerie

Tra i punti della Proposta di legge ci sono l’incompatibilità a ricoprire ruoli apicali nelle strutture pubbliche se appartenenti a logge massoniche, l’aumento delle pene minime e massime previste dalla legge Anselmi

Ieri a Montecitorio si è svolto il convegno intitolato ‘La mafia non è più quella di una volta (ma resta quella di sempre)’, una riflessione, a 25 anni dalle stragi di Palermo, su come sia cambiato il fenomeno mafioso e sull’adeguatezza dell’attuale quadro normativo, dal 416 bis alla legge Anselmi.
Sono intervenuti il professor Isaia Sales, storico di mafia, il procuratore Giuseppe Lombardo, titolare delle maggiori inchieste in corso a Reggio Calabria contro la ‘ndrangheta, la giornalista di Repubblica e del Corriere della Calabria Alessia Candito, l’avvocato Fabio Repici, legale in alcuni dei maggiori processi di mafia in corso e il vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia Claudio Fava.

Ieri sono intervenuto alla trasmissione I fatti in diretta: si parlava di ‘ndrangheta.
Ho parlato (DAL MIN. 60) , a proposito anche della vicenda matacena, della capacità delle organizzazioni criminali mafiose di prolungare le latitanze. La durata di una latitanza è uno dei metri della forza pervasiva dell’organizzazione criminale.
Il perdurare della latitanza di Matacena, nelle condizioni che voi tutti conoscete, è del tutto inaccettabile.
Se questa latitanza perdura nel tempo è soltanto per una responsabilità politca ed istituzionale, perchè investigatori e magistrati hanno fatto tutto quello che dovevano e potevano fare.

RIPETO: QUESTA LATITANZA DURA NEL TEMPO PER RESPONSABILITA’ POLITICHE ED ISTITUZIONALI

Introduzione nel codice penale del reato di frode in processo penale e depistaggio. Il mio intervento.

Con il nuovo art. 375 del Codice Penale, che ci accingiamo ad approvare definitivamente, decidiamo di sanzionare severamente il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che al fine di impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale, imbrogli le carte, depisti, cioè metta chi indaga e chi giudica su una pista falsa, che porta lontano dalla verità.
L’approvazione benedetta da parte del Parlamento di un simile nuovo reato è di per se’ inquietante, perché proprio la necessità condivisa di introdurre questa nuova fattispecie impone il bisogno di fare i conti con una questione presupposta: per quale motivo un Pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio dovrebbe imbrogliare le carte al fine di impedire, sviare, ostacolare una indagine o un processo penale?

Posso immaginare quattro risposte.

Perché è fuori di se’. Immaginiamo un PU che in preda ad una grave depressione o ai fumi dell’alcol distrugga l’importante prova di un delitto. Sarà probabilmente dichiarato incapace di intendere e di volere, ancorché temporaneamente, con tutte le conseguenze del caso.

Seconda risposta: perché è un corrotto o perché è sotto ricatto. Immaginiamo un PU che si intaschi dei soldi per imbrogliare le carte e allora insieme al nuovo 375 sarà chiamato anche a rispondere di corruzione oppure un PU che sia vittima di una estorsione. In questo caso c’è da augurarsi che il PU denunci immediatamente l’estorsione medesima.

Terza risposta: perché è intraneo all’organizzazione criminale contro la quale si sta procedendo. In questo caso si apprezzerebbero le parole messe in capo alla descrizione della fattispecie “Salvo che il fatto non costituisca più grave reato”. Immaginiamo un PU che imbrogli le carte perché fa parte della organizzazione mafiosa o della organizzazione terroristica oggetto di indagine e processo, ma allora per lui la situazione sarà ben più grave.

Quarta risposta: perché qualcuno più in alto gli ha chiesto di farlo. Questa che è la risposta più dolorosa e più pericolosa rimanda ad una questione complicata e delicata: la “ragion di Stato”, in tutte le sue declinazioni e deformazioni. Esiste una “ragione di Stato “ superiore alla ricerca della verità, soprattutto di fronte ad un omicidio o addirittura ad una strage? Per alcuni probabilmente si: il mantenimento dell’ordine. Anche nella sua versione deteriore e ipocrita, laddove si consideri come “ordine” da difendere la rendita di posizione di qualche combriccola altolocata oppure la posizione pretesa da qualche nuova combriccola rampante.

In questa prospettiva si collocano diversi episodi che hanno segnato la storia repubblicana e che hanno lasciato aperti interrogativi molto gravi. Qualche esempio:

Viene ucciso il Prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa, la magistratura avrebbe bisogno di leggere i dossier sui quali il Generale stava lavorando, ma forse quei dossier resi noti in un processo, potrebbero inguaiare troppe persone. Fatto sta che qualcuno riesce a introdursi nell’abitazione palermitana del Prefetto, Villa Pajno, aprire la cassaforte, svuotarla, portarsi via la chiave, che comparirà al suo posto nel cassetto, soltanto qualche giorno dopo.

Viene ucciso il direttore degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, Giovanni Falcone, la magistratura avrebbe bisogno di acquisire integralmente le memorie informatiche dei vari computer che Falcone adoperava. Ma anche in questo caso qualcuno riesce ad introdursi addirittura nello studio di Falcone presso il Ministero che era stato posto sotto sequestro e manipolare in più riprese la memoria del computer, che non era stato sequestrato.

Viene ucciso il Procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino, alla magistratura servirebbe eccome leggere gli appunti contenuti nella agenda rossa, che però qualcuno si incarica di far sparire dalla scena del delitto.

Regie unitarie? Convergenze tra interessi diversi? Indicibili accordi? Sappiamo soltanto che la partita per la verità non è finita e possiamo soltanto augurarci che nulla di tutto ciò che è purtroppo paventabile, sia in realtà mai successo, perché diversamente quel particolare ingrediente della credibilità dello Stato che è la sua affidabilità, sarebbe radicalmente compromesso.
Tornano alla mente le parole che adoperò poche settimane fa in quest’Aula il Ministro degli Esteri Gentiloni, parole che mi colpirono e commossero, quando intervenendo sull’assassinio di Giulio Regeni e parlando dell’Egitto, disse: “L’unica ragion di Stato è la verità”. Ecco il punto. Soprattutto in casi di omicidio o stragi lo Stato non ha altra ragione di essere che non sia l’affermazione della verità, costi quello che costi, con buona pace di ordini da non destabilizzare, ordini che pretendano di stabilizzarsi, convergenze o indicibili accordi. Di fronte all’assassinio lo Stato non può che cercare accanitamente la verità. Punto!

L’ordine che nasce dalla verità ristabilita, dal sopruso punito è sempre migliore di qualunque altro ordine possibile.

Così, Presidente e colleghi, mi avvio a concludere sottolineando alcuni auspici relativi alle questioni sottese alla nuova norma penale che stiamo per approvare.

Primo: le condotte descritte dal nuovo 375, sia pure sul piano delle ipotesi, possono tradursi in concreto nella manipolazione dei collaboratori di giustizia, inducendoli a dire il falso o a tacere il vero, possono tradursi nella manipolazione dei Testimoni di Giustizia, per esempio mantenendoli in condizioni di precarietà tale durante il programma di protezione, da indurli a non rendere la testimonianza e a chiedere la fuori uscita dal programma medesimo. Così come un altro ambito in ipotesi sensibile all’inveramento di simili condotte è l’ambiente carcerario e in particolare quelle sue articolazioni deputate alla gestione dei così detti 41 bis. Per questo sempre alta dovrà essere l’attenzione nostra nel mettere chi opera in questi delicati segmenti dell’Amministrazione dello Stato nelle migliori condizioni di farlo e altrettanto alta l’attenzione da parte degli organismi parlamentari preposti nel mantenere un monitoraggio continuo.

Secondo: tra i “documenti comunque utili alla scoperta del reato” possiamo a pieno titolo annoverare anche i Trattati di cooperazione giudiziaria e di estradizione, perché quando questi ci sono e vengono applicati, la Giustizia procede in un certo modo, quando non ci sono, no. Per questo auspico che il Governo renda operativo quanto prima il Trattato di Cooperazione giudiziaria con gli Emirati Arabi Uniti, dove notoriamente e comodamente risiedono diversi delinquenti italiani.

Terzo: c’è un fatto che ci ha recentemente sconvolto: la tragica morte del col. Omar Pace. Stimato nell’ambiente investigativo per le sue straordinarie capacità informatiche, tanto utili soprattutto in alcuni procedimenti penali ancora aperti. Su questo episodio la Procura di Roma ha aperto un fascicolo: auspico che quanto prima si possa fare piena luce sull’accaduto.

Quarto e ultimo: considerata la grande stima che nutriamo nei confronti delle nostre Forze dell’Ordine, dei Servizi di Informazione e della nostra Magistratura, auspico che il nuovo 375 diventi più che altro un monito, figlio di un passato che non vogliamo si ripeta mai più.