AGI: Mattiello, dopo parole Draghi servono scelte coraggiose

L’AGI riprende le mie parole, pubblicate da I Blog de Il Fatto Quotidiano.

(AGI) – Roma, 25 mag. – “Perche’ le parole di Draghi non siano retorica compiacenza, servono scelte urgenti e coraggiose, altrimenti avranno avuto ragione quei magistrati che stanno lanciando allarmi che paiono inascoltati”. Lo scrive su un blog pubblicato sul sito del “Il Fatto Quotidiano”, Davide MATTIELLO, attivista antimafia ed ex deputato.

MATTIELLO cita le dichiarazioni del presidente del Consiglio intervenuto a Milano al convegno sul ruolo della finanza nella lotta alla mafia: “Siamo all’avanguardia nella legislazione antimafia e nella protezione dei testimoni e dei loro familiari, uno strumento fondamentale per la giustizia sin dai tempi del maxiprocesso”.
“Vero. Forse il presidente Draghi – scrive l’ex deputato – utilizzando la parola ‘testimoni’ ha voluto fare riferimento tanto ai ‘testimoni di Giustizia’ cioe’ a quelle (poche!) persone perbene che, avendo subito un reato di mafia o avendone visto commettere uno, hanno deciso di denunciare anziche’ abbassare la testa o girarla dall’altra parte, quanto ai ‘collaboratori di giustizia’ cioe’ a quei delinquenti patentati – continua – che decidono di negoziare con lo Stato uno scambio tra informazioni utili alle indagini e benefici carcerari, strumento quest’ultimo fortemente voluto da Falcone, che ne affino’ l’efficacia collegandolo a precise scelte di politica carceraria (4 bis e 41 bis), e di estensione della confisca di prevenzione”.

Secondo MATTIELLO “questi strumenti da un lato non funzionano come dovrebbero (troppi ‘testimoni-testimoni’, vittime di estorsione, stanno pagando un prezzo insopportabile a causa delle tortuosita’ della burocrazia) e dall’altra rischiano di essere azzoppate da ‘riforme’ annunciate o mezzo-varate?”.
Infine, “l’orizzonte verso il quale muoversi per Draghi – conclude l’attivista antimafia – pare essere sintetizzato in questo passaggio: ‘semplifichiamo le procedure, miglioriamo il sistema di contrasto alle infiltrazioni, rafforziamo i controlli'”. (AGI)Nat

La politica piemontese censuri il ricorso alla sottovalutazione ed alla ingenuità

L’arringa dell’avvocato Piazzese dovrebbe far riflettere la politica piemontese.

Almeno quella democratica. Almeno quella che avversa la mafia, i suoi voti, il suo potere di condizionamento e di intimidazione. Tanto più ora che stanno per andare ad elezione per il rinnovo di Sindaco, Giunta e Consiglio ben 93 Comuni, tra i quali tre capoluoghi come Asti, Alessandria, Cuneo e per quanto riguarda l’area metropolitana torinese, Comuni come Chivasso e Caselle. 

L’avvocato Piazzese difende Roberto Rosso dall’accusa di essersi accordato con due boss di ‘ndrangheta del calibro di Onofrio Garcea e Franco Viterbo per la campagna elettorale delle regionali del 2019. 

Ne fa una cronaca su La Stampa Giuseppe Legato, alla quale volentieri rimando (qui).

Sarà ovviamente il Tribunale a valutare sul piano penale gli argomenti adottati dall’avvocato Piazzese per salvare il suo assistito dalla condanna, ma rilevano per una più ampia riflessione perché da un lato ripropongono la solfa della “sottovalutazione”, della “ingenuità”, dall’altra aprono il vaso di pandora delle altrui condotte, in particolare quella di Bertot, ritenute, dall’avvocato, assai più gravi di quelle di Rosso eppure diversamente considerate ed in fine illuminano ancora una volta la vicenda di Domenico Garcea per il quale in verità sarebbero stati raccolti i voti dai cugini mafiosi. Povero Rosso, verrebbe da dire: cornuto e mazziato. Accusato di voto di scambio, lui che i voti li avrebbe pagati per davvero, e per di più frodato dai mafiosi (altro che “uomini d’onore”!!) che avrebbero preso i soldi, ma poi avrebbero votato e fatto votare l’attuale vice presidente vicario del Consiglio Comunale di Torino e membro della Commissione legalità, Domenico Garcea, mai indagato per questi fatti. 

La politica piemontese, a prescindere dalle valutazioni dei Tribunali, dovrebbe una volta per tutte censurare il ricorso alla “sottovalutazione” ed alla “ingenuità”. Dopo l’assassinio di Bruno Caccia nel 1983, dopo l’ondata di inchieste e condanne innescate più recentemente dall’operazione Minotauro nel 2011, non è possibile fare spallucce: la mafia c’è, fa grassi affari non soltanto nel campo dell’edilizia, cerca di condizionare le campagne elettorali ed ha agganci altolocati anche con ambienti insospettabili. Bisogna pretendere un livello altissimo di attenzione nella individuazione delle candidature e nella conduzione delle campagne elettorali. Cosa pensano di fare i partiti (movimenti inclusi) in vista delle comunali?

Infine, non so se l’arringa dell’avvocato Piazzese servirà a scagionare Roberto Rosso dalle accuse, ma mi pare che intenda porre almeno un dubbio di carattere generale: come mai condotte apparentemente analoghe, hanno ricevuto attenzioni tanto diverse? Eppure la legge dovrebbe essere uguale per tutti e l’azione penale obbligatoria. 

12 Marzo: a 30 anni dall’assassinio di Salvo Lima, qualche considerazione sul voto di scambio politico mafioso

Quando venne avvertito dell’omicidio di Salvo Lima, Giovanni Falcone commentò: “Ora può succedere di tutto”.

Non si sbagliò nemmeno in quella circostanza Giovanni Falcone, che intuì subito la portata di quel fatto: fu l’inizio della vendetta di Cosa Nostra devastata dalla sentenza di Cassazione del 30 gennaio 1992, che confermando l’impianto accusatorio del maxi processo, sgretolava il mito della impunità di Cosa Nostra e svelava anche il logoramento definitivo del rapporto tra Cosa Nostra e un pezzo di Stato.

In quella stessa tragica estate il Parlamento aggiunse al Codice Penale l’art. 416 ter per punire espressamente la relazione tra mafioso e politico nel momento delle elezioni: il decreto legge dell’8 Giugno, veniva convertito in legge il 7 Agosto, con l’Italia tramortita dalle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Il reato di voto di scambio politico mafioso veniva “infilato” nel Codice Penale esattamente dieci anni dopo che il Parlamento a fatica ci aveva infilato il 416 bis, anche in quella circostanza soltanto dopo i brutali assassini di Pio La Torre e di Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Una norma importante per stigmatizzare l’essenza stessa della pericolosità delle mafie: l’eversione dell’ordine democratico attraverso il sistematico inquinamento dell’esercizio democratico del potere, a cominciare dalla selezione dei rappresentanti del popolo sovrano.

Una norma intelligente perché capace di isolare tra le condotte che alimentano la forza delle mafie, quella più odiosa cioè quella del politico che pur di vincere ne evoca e ne legittima il potere.

Una norma scritta in maniera poco efficace (sarebbe interessante recuperare gli atti parlamentari, ma non è questa la sede) chissà se per superficialità, fretta o malizia soprattutto perché la consumazione del reato avrebbe preteso di essere dimostrata dalla prova della “dazione di denaro”. Ora quale politico può essere così scellerato da mettere in una busta il prezzo del servizio mafioso di procacciamento di voti? Ed infatti dal 1992 pochi furono quelli condannati per 416 ter!

A partire dal 2013 e fino al 2019 l’articolo è stato sottoposto ad una profonda revisione parlamentare attraverso successivi interventi che lo hanno modificato significativamente, rendendolo complessivamente più adeguato. Di questo lungo travaglio politico mi sono trovato ad essere uno dei protagonisti, essendo stato il relatore del provvedimento per la maggioranza alla Camera tra il 2013 ed il 2017. Le pressioni per fare della riforma un radicale annacquamento furono formidabili e credo non meno impressionanti furono le tensioni che portarono alle (per ora definitive) modifiche intervenute nella XVIII Legislatura ed entrare in vigore a Giugno del 2019. Non è questa la sede per ripercorrere i motivi e gli effetti dei vari interventi, c’è però lo spazio per chiarire ad ogni buon conto almeno due caratteristiche della fattispecie che dal 2014 NESSUNO ha più rimesso in discussione. La prima: l’allagamento della “platea” delle condotte penalmente rilevanti ovvero il reato si intende commesso non soltanto quando in cambio dei voti viene dato del denaro, ma quando in cambio dei voti il politico offre qualsiasi tipo di utilità al mafioso. La seconda è altrettanto importante e consiste nella anticipazione della consumazione del reato al momento dello “scambio delle promesse”, cioè al momento dell’accordo tra le parti. In altri termini: provare la successiva dazione di denaro o la effettiva realizzazione di altre utilità può soltanto spingere più in avanti il momento della conclusione della condotta criminale (soprattutto a beneficio del calcolo della prescrizione), ma il reato è perfettamente posto in essere quando le parti si accordano nella consapevolezza del reciproco ruolo ricoperto in commedia. 

Ultima considerazione: nell’accordo tra le parti è sempre chiaro cosa debba fare il mafioso, meno chiaro cosa dovrà fare il politico soprattutto se eletto anche grazie ai voti del mafioso. Il concetto di “altre utilità” è ampio, reso ancora più ampio dal concetto di “disponibilità” introdotto a Giugno del 2019 e sta sicuramente alla sagacia di magistrati ed investigatori coglierne la portata, declinando la norma astratta e generale, dentro ai fatti concreti e sorprendenti nei quali ci si imbatte. Su questo ultimo punto mi permetto, in conclusione, di sottoporre al pubblico giudizio una modesta ipotesi: qualora il politico che beneficia dell’accordo elettorale fosse un noto parente del noto mafioso che si attiva per la sua campagna elettorale, l’utilità conseguente alla sua elezione non sarebbe dimostrata “in re ipsa”, dal fatto stesso che il cognome della nota famiglia mafiosa riceverebbe il blasone di uno scranno istituzionale? Una sorta di complemento oggetto interno, tipo “ho sognato un sogno”, che tradotto nell’onirico mafioso potrebbe suonare: “Ho sognato mio cugino Sindaco!”. E forse non è soltanto la trama di un film di Cetto Laqualunque!

Domenico Garcea: facciamo chiarezza attraverso le carte

Abbiamo posto semplicemente (!) una questione di opportunità politica e di coerenza morale, abbiamo auspicato semplicemente (!) una presa di posizione netta. Abbiamo ottenuto reazioni spudoratamente mendaci. Ma c’è sempre tempo e forse una più meditata lettura di questi stralci potrà aiutare:

 

Per approfondire il caso leggi i miei precedenti articoli

 

 

Garcea: il campo che ho indicato è quello del politicamente inopportuno e del moralmente ripugnante

Sulla infausta nomina del Consigliere comunale Domenico Garcea nella Commissione speciale “Legalità” del Comune, alcuni ulteriori spunti di riflessione. E qualche domanda. 

A coloro che si sono indignati (!) per quello che ho scritto, riempiendosi la bocca di presunto “garantismo” rispondo: che c’entra! O siete ignoranti o siete in mala fede. Il “garantismo” attiene al campo del penalmente rilevante che io ho esplicitamente escluso rispetto alla vicenda, fino a prova contraria. Non è una colpa di per sè avere un parente delinquente. Il campo che ho invece indicato è quello del politicamente inopportuno e del moralmente ripugnante.

A coloro che mi hanno chiesto come mai sollevassi questa questione di opportunità ora e non quando Domenico Garcea è stato nominato vice-presidente del Consiglio comunale rispondo: l’inopportunità politica è relativa alla specifica responsabilità ricoperta. Di cosa si occuperà la Commissione speciale “Legalità” del Comune di Torino? Anche di studiare le più rilevanti inchieste giudiziarie aperte negli ultimi anni, che riguardano precisamente la presenza della ‘ndrangheta sul nostro territorio, gli affari e le collusioni con la politica, al fine di elaborare ipotesi di provvedimenti utili a prevenire e contrastare il fenomeno. Tra queste inchieste c’è sicuramente quella composta da “Carminius” e “Fenice”, nella quale si ritrovano proprio i protagonisti di questa vicenda. 

A coloro che mi hanno chiesto: ma che ti aspetti? Che Domenico Garcea venga escluso dalla Commissione? Rispondo: no, mi aspetto prima di tutto una cosa molto più semplice, presupposto di ogni altra eventuale considerazione e cioè che dica la verità, pubblicamente, come si conviene ad un politico che non voglia essere tacciato di reticenza. La verità su cosa? E così arrivo alle domande.

Domenico Garcea è cugino di Onofrio Garcea, patentato dalla Cassazione come ‘ndraghetista di primo piano?

Domenico Garcea ha uno zio che si chiama nello stesso modo del cugino, Onofrio Garcea, fratello del padre Raffaele: in almeno due post ha fatto riferimento a questo parente, come a suggerire uno “scambio di persone”?

Domenico Garcea intende dissociarsi dalle condotte criminali del cugino, condannandole apertamente?

Domenico Garcea esclude che il cugino si sia interessato alle sue campagne elettorali?

Domenico Garcea cosa pensa della ‘ndrangheta?

A cosa servirebbero risposte chiare a queste domande? A preservare la credibilità della Istituzione, in questo caso la Commissione speciale “Legalità”, perché la credibilità delle Istituzioni è fatta dalla reputazione di chi le incarna temporaneamente e la reputazione di una persona si nutre anche delle posizioni assunte pubblicamente su temi delicati.

Domenico Garcea decida se ispirarsi a Peppino Impastato o a Lucia Riina.

Inopportuno che Domenico Garcea faccia parte della Commissione Legalità del Comune di Torino

Dare conto pubblicamente delle proprie posizioni non va più di moda, a quanto pare. 

Un buco nell’acqua provare a chiedere a Salvini se ritenga di prendere le distanze dall’amico Putin, idem quando si chiede al Presidente Cirio di censurare le posizioni assunte dall’assessore Marrone a supporto dei separatisti filo russi del Donbass…Chissà se si riuscirà a cavare una parola chiara almeno dal consigliere comunale Domenico Garcea, eletto a Torino nelle fila di Forza Italia ed appena nominato componente della Commissione consigliare speciale “legalità” del Comune.

Il Consigliere Domenico Garcea, mai nemmeno indagato per i fatti a cui mi riferisco, è cugino di Onofrio Garcea, condannato in primo e secondo grado per voto di scambio politico mafioso in esito del processo celebrato con rito abbreviato, scaturito dalla indagine denominata Fenice (proprio la stessa che ha portato all’arresto dell’Assessore regionale Roberto Rosso), che ha avuto ad oggetto la campagna elettorale per le regionali del 2019, alle quali Domenico era stato candidato sempre da Forza Italia. Allora Domenico non venne eletto, piazzandosi alle spalle di Tronzano con un ragguardevole numero di preferenze: oltre 700.

È un fatto che Onofrio Garcea sia ‘ndraghetista patentato dalla Cassazione, che ha reso definitiva la condanna a 7 anni e 9 mesi in esito al processo Maglio 3 celebrato a Genova, ritenendolo capo dell’articolazione genovese della ‘ndrangheta fino al 2012.

È un fatto, chiaramente deducibile dalle motivazioni della sentenza di primo grado che Onofrio Garcea ed il suo sodale criminale Francesco Viterbo si interessarono assai alla campagna elettorale di Domenico.

È un fatto che Domenico abbia una sorella, Chiara.

È un fatto che Chiara, sorella di Domenico e cugina di Onofrio fosse anche (almeno al tempo) la fidanzata di quest’ultimo.

È un fatto che Chiara si sia data un gran da fare per la campagna elettorale del fratello e che ne abbia parlato più volte con il cugino-fidanzato.

È un fatto che Chiara fosse non soltanto consapevole della caratura criminale del cugino-fidanzato, ma che ne fosse tanto orgogliosa. Agli atti resta la più iconica dichiarazione d’amore che in materia ci si possa aspettare di leggere: “Io sono andato a prendermi un uomo con i coglioni! Un uomo che sapevo che ci aveva a che fare con chi ci aveva a che fare! Eh! Un uomo che quando entrava in un locale, sapevo che gli aprivano le porte! Non un coglione del cazzo! (…) Ascolta sei tu quello che fa lo ‘ndranghetista!” Puro amore insomma!

Non risulta alla Procura che Domenico fosse a conoscenza del sostegno realizzato dal cugino, sollecitato dalla sorella e per questo Domenico non è stato, ripeto, nemmeno indagato.

Tutto ciò posto, abbiamo imparato che il perimetro del penalmente rilevante NON coincide con quello del politicamente inopportuno e NON coincide con quello del moralmente ripugnante.

I giudici fanno il loro mestiere che non risolve il mestiere di chi fa politica.

Considerati gli stretti legami famigliari tra Onofrio, Chiara e Domenico Garcea a me pare inopportuno che proprio quest’ultimo sia stato chiamato a comporre la Commissione Legalità del Comune di Torino. 

Sarebbe quanto meno necessario che Domenico prendesse pubblicamente le distanze da questi fatti, condannandoli esplicitamente: ad un politico è legittimo chiedere la parola ed il politico ha sempre la responsabilità di scegliere tra reticenza e chiarezza. 

Caro Presidente Mattarella

Caro Presidente Mattarella,
così alla fine sarà lei a rappresentare gli italiani il 23 Maggio e poi il 19 Luglio, durante le commemorazioni che si terranno per i trent’anni dalle stragi del 1992: grazie (anche per questo)!
La rabbia, lo smarrimento, la paura che pervasero l’Italia dopo quei terribili attentati, segnano anche questo tempo, pur avendo oggi motivi differenti. Motivi che a Lei sono ben chiari, tanto da essere stati determinanti nel farle accettare la rielezione, come lei stesso ha voluto sottolineare con le sue prime parole.
A pagare il prezzo più alto di questa congiuntura sono i giovani ed i giovanissimi.
I bambini che quasi non ricordano più come era stare senza mascherina, gli adolescenti che soffrono di forme di ansia sempre più preoccupanti, i giovani che cercano di affacciarsi al presente, sperimentando con fatica il proprio protagonismo.
Sono certo che un posto nelle sue riflessioni in vista del discorso che terrà per il suo insediamento ce lo ha Lorenzo Parelli, il diciottenne morto in fabbrica nel suo ultimo giorno di alternanza scuola-lavoro e probabilmente ce lo hanno anche i tantissimi ragazzi e le tantissime ragazze che nei giorni successivi sono scesi in piazza con lo slogan “Potevo essere io”, o che hanno occupato le scuole, per chiedere un maggior rispetto delle loro vite e delle loro legittime aspirazioni.
Manifestazioni segnate in diversi casi da tensioni con le Forze dell’Ordine che hanno reagito con modalità parse a molti sproporzionate e dunque incomprensibili.
Sono situazioni che richiedono il massimo dell’attenzione perché ne va della qualità della democrazia presente e futura, come la storia della nostra giovane Repubblica ci dovrebbe avere già insegnato. Esiste un equilibro delicato tra il rispetto delle regole e l’obiezione, tra il far rispettare le regole e l’abuso di potere, tra la libertà di ciascuno e la prepotenza di qualcuno. Un equilibrio che va rifondato ad ogni passaggio di testimone generazionale e che comunque non è mai dato una volta per tutte, perché sempre mutano le circostanze e gli “ecostitemi” culturali. Per chi oggi è giovane in gioco c’è il rapporto con le Istituzioni, il rapporto con il principio di legalità, la capacità di stare in un modo o in un altro dentro il conflitto per la gestione del potere pubblico, insomma: il modo con il quale si diventa cittadini.
La democrazia emancipante fondata dalla nostra Costituzione richiede a tutti lo sforzo di tenere insieme il valore delle regole con la capacità di innovarne significato e forma, senza tabù. In questo senso tanto sono preziose le regole, quanto lo sono le “eccezioni”, cioè le manifestazioni di dissenso, financo di disobbedienza civile, se con senso di responsabilità cercano di traghettare il “già” verso il “non ancora”. Senza questa tensione non sarebbe stato possibile nemmeno organizzare il pool antimafia di Palermo, in un momento storico nel quale l’ordinamento non consentiva in alcun modo che magistrati titolari di inchieste differenti potessero condividere informazioni riservate. Ma la necessità di organizzare pool di magistrati era ineludibile a causa della violenza con la quale si manifestavano fenomeni criminali come il terrorismo brigatista e la mafia, almeno se ne avessero ammazzato uno, gli altri avrebbero potuto andare avanti. E così si fece, fino a quando la regola non cambiò. Fu anche grazie a questa “disobbedienza civile” che si riuscì ad istruire il maxi processo contro Cosa Nostra, che proprio il 30 Gennaio del 1992 vide la sua consacrazione da parte della sentenza definitiva della Cassazione, che accolse in toto la validità dell’impianto accusatorio e consentì di perfezionare la prima grande vittoria dello Stato sulla mafia.
Lei Presidente è anche per questo la persona giusta al posto giusto: saprà senz’altro trovare le parole più adatte ed ha l’autorevolezza per farle ascoltare. Con lei si può riannodare il filo del discorso democratico con una intera generazione che ha fame di punti di riferimento credibili.

Se vince la Mafia, 30 anni dopo le stragi

 

Se è vero che la prima Repubblica nasce a Portella della Ginestra, la seconda Repubblica nasce a Capaci e oggi, trentanni dopo le stragi, siamo a un giro di boa. Cosa possiamo fare noi perchè gli ideali di libertà, uguaglianza e giustizia sociale continuino ad essere la stella polare che guida il nostro agire e lagire politico?

Nel 1992 londa durto delle bombe ha scosso unintera generazione. Prima Capaci, poi via DAmelio. Trentanni dopo possiamo ancora sentire quellonda durto che sta continuando a vibrare, pretendendo verità e giustizia. Ma trentanni sono tanti e il rischio che quella stagione venga archiviata e spazzata via da nuove priorità, solo apparentemente più urgenti, è dietro langolo.

Nel 2022 sicuramente in tanti, sia con ruoli istituzionali che non, commemoreranno i magistrati e gli agenti morti nelle stragi. Proprio il ricordo di quelle vite spezzate deve portarci a fare un passo in più verso una rinnovata consapevolezza.

Siamo forse di fronte a un processo di trasformazione culturale nei confronti del potere e dellorganizzazione sociale? La nostra società si sta lentamente abituando ad alcune forme di clientelismo? La capacità di intimidazione sta diventando perfino seducente? Soprattutto agli occhi delle nuove generazioni?

Dobbiamo fare attenzione! Perché se la battaglia contro le organizzazioni mafiose storicamente intese sarà vinta dallo Stato, prima o poi, è nostra responsabilità evitare che il paradigma mafioso si radichi, come sembra stia accadendo. La mafiosizzazione” della società è una questione culturale e culturale deve essere, quindi, la rinnovata battaglia che abbiamo di fronte.

Ecco, nellanno che segna il trentennale dalle grandi stragi di mafia dobbiamo ribadire la responsabilità di continuare a costruire una società migliore e inclusiva, dove tutti si sentano attori protagonisti della storia che stiamo vivendo.

Continuiamo la discussione insieme!

                

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Caro Filisetti, senza antifascismo non c’è antimafia: si vergogni e si dimetta!

Articolo sul blog de Il Fatto quotidiano.

La circolare firmata dal dirigente dell’Ufficio scolastico regionale per le Marche, Marco Ugo Filisetti, che invita studenti e studentesse a celebrare il 25 aprilecommemorando tutti i caduti della seconda guerra mondiale senza distinzione di parte, è tanto vergognosa quanto pericolosa ed auspico che il ministro Bianchi intervenga prontamente.

C’è una regola generale che va richiamata in premessa: un Paese è quello che è soprattutto per le scelte di rottura e discontinuità che ha saputo fare rispetto al passato dal quale arriva, parafrasando Calvino: ogni Paese riceve la sua forma dal deserto cui si oppone. L’Italia repubblicana e democratica, fondata sul lavoro, è l’Italia fondata da chi si è opposto al nazifascismo e che il 2 giugno 1946, sperimentando per la prima volta il suffragio universale, ha detto basta anche con la monarchia.

La memoria collettiva che si fa celebrazione civile nel calendario repubblicano è dedicata a coloro che si sono fatti carico di quei No, perché è a quei No che siamo grati ed è a quei No che dobbiamo la nostra libertà. A tutti i morti è giusto rivolgere un senso di umana pietà, ma altra cosa è la memoria collettiva che diventa celebrazione repubblicana: quella si deve soltanto ai martiri della libertà. Ma c’è di più.

La rottura col nazifascismo e con la monarchia è stata per contro, nella fondazione della Repubblica democratica, l’affermazione in Costituzione del principio più antagonista: l’uguale dignità di ogni essere umano, che ha per conseguenza l’uguaglianza di tutti davanti alla legge e ancora l’ordine imposto alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli materiali che continuino a produrre ingiuste diseguaglianze. Niente di più antagonistico rispetto ad una società fondata sulla teorizzazione della segregazione tra esseri umani di serie “A” (ariani, sani, eterosessuali…) ed umanità di serie “B” (tutti gli altri, che se non da eliminare fisicamente saranno comunque da sfruttare mantenendoli in costante condizione di subalternità).

E’ questa rottura etica che celebriamo il 25 aprile. E’ questa rottura etica, questo ribaltamento radicale che vede il valore della persona iscritto nella sua stessa esistenza e non nell’appartenenza a questo o quel gruppo umano privilegiato che fa della nostra Costituzione una Costituzione antifascista e dunque antimafiosa. Eh sì, perché la cultura mafiosa è sorella di quella fascista: anche la mafia infatti è fondata su una visione ferocemente segregazionista della società, una società divisa tra uomini d’onore cui tutto è concesso e uomini che stanno fuori dal clan, specie di “babbani” che è bene si facciano i fatti propri e all’occorrenza ubbidiscano senza protestare, pena l’eliminazione.

Non ci sarebbe antimafia senza antifascismo. Senza antifascismo la mafia sarebbe Stato. Sarebbe come se nel 2022, per i 30 anni dalle stragi mafiose del 1992, un dirigente scolastico scrivesse: cari ragazzi, nel 1992 due fazioni se le sono date di santa ragione, ciascuna gagliardamente convinta della bontà delle proprie ragioni, da una parte i Corleonesi e dall’altra i Magistrati di Palermo, ma noi oggi dobbiamo guardare al futuro e dobbiamo superare odi e pregiudizi e quindi vi invito a ricordarle tutte quelle vittime, senza distinzione di parte.

Dottor Filisetti: si vergogni e si dimetta. Scelga lei in che ordine fare le due cose.

Dal fango alle stelle: la confisca dei beni ai corrotti

Proprio ieri, 21 Marzo – Giornata della memoria e dell’Impegno in ricordo di tutte le vittime innocenti delle mafie, La Repubblica dedica una intera pagina al Prefetto Corda, direttore della Agenzia nazionale per la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, scegliendo un titolo che sa di vittoria: “La villa di Galan, le case di Lady ASL. Ai volontari i tesori dei corrotti”.
Ed in effetti di vittoria è giusto parlare: dopo anni passati a denunciare quanto la corruzione sistemica fosse non soltanto lo strumento di penetrazione privilegiato dalle organizzazioni mafiose, ma fosse esso stesso sintomo di un insopportabile abuso di potere mafioso nei modi, se non nel pedigree e che per questo bisognasse esplicitamente trattare mafiosi e corrotti nello stesso modo, la modifica del Codice Antimafia approvata dal Parlamento nel 2017 lo ha reso possibile.
Il nuovo Codice Antimafia estende infatti l’applicabilità delle misure di prevenzione patrimoniali anche agli indiziati di corruzione, previsione tanto più opportuna oggi alla luce della sentenza della Corte Costituzionale (N. 24 del 2019) che ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale dell’art.4 lettera C del Codice Antimafia, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lettera a).
Fu una bella battaglia, costata a chi se la caricò sulle spalle parecchie palate di fango.
Una vittoria che ha il significato precisamente espresso dal prefetto Corda: beni che sono stati l’arrogante segno del potere criminale sul territorio, diventano finalmente strumento di riscatto sociale, attraverso l’alleanza tra Istituzioni dello Stato, Enti locali e associazioni di cittadini.
Ma nessuna vittoria è per sempre ed in un Paese nel quale, approfittando della tragedia Covid, c’è chi vorrebbe abolire persino il Codice degli appalti, serve una precisa assunzione di responsabilità politica affinchè la destinazione dei beni confiscati sia il cuore di una strategia che coinvolga non soltanto il Ministero dell’Interno, ma il MIUR, il MISE, il MEF, quello per le Pari Opportunità, i Giovani, il Sud e la coesione territoriale, la Transizione ecologica. Soltanto così non dovremmo più piangere sul latte versato, cioè sulle occasioni sprecate e sull’inevitabile ritorno di fiamma della atavica sfiducia italica nei confronti dello Stato.
Proprio per questo uno degli aspetti qualificanti della proposta di riforma del Codice Antimafia fu quello di spostare l’Agenzia dal Ministero dell’Interno alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. La proposta non passò e io me ne dispiacqui assai. Ma facendo lo sforzo di comprendere le ragioni che impedirono questa svolta, oggi dico che si potrebbe raggiungere ugualmente il fine istituendo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (dove per altro stanno già incardinati diversi dei Ministeri ai quali sopra ho fatto riferimento) una delega al coordinamento degli interventi volti alla destinazione dei beni confiscati che sia di sostegno alla Agenzia, proprio nello stimolare e alimentare il concerto di decisioni e risorse con gli altri Ministeri.
Il riscatto sociale ed economico connesso all’efficacia del riutilizzo dei beni confiscati può essere uno dei fattori di rilancio dell’Italia dopo tanta sofferenza: perché il rilancio dipende anche dalle buone notizie che fanno migliore l’umore e orientano all’ottimismo verso il futuro.
Anche così determineremo il modo con il quale usciremo dal tunnel della pandemia e torneremo a riveder le stelle.