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Buon lavoro Enrico Letta

Ho ascoltato con attenzione le parole di Enrico Letta e tanti sono i punti su cui mi sono sentito in sintonia (*) ma uno in particolare mi ha colpito: ha raccontato di aver ricevuto diversi messaggi nei quali quasi gli si dava del matto “Ma come?! Lasciare il posto all’Università per un ruolo di partito?! Passi lasciarlo per un ruolo istituzionale, ma non per un ruolo di partito!”. Ha detto Letta di aver preso la decisione di accettare la candidatura a segretario proprio davanti a questi messaggi che gli sembravano assurdi. Ecco, bravo! Perché non c’è buona battaglia che si possa vincere senza che ci sia una forza solida ad affrontare l’impresa. Di più: la forza che deriva dalla solidità della compagnia è l’unica speranza di successo per chi non ha altre forze che gli derivino dai soldi o dalla posizione sociale. Non c’è vela che regga il mare se il legno è marcio. E sicuramente Letta questo lo sa bene. Buon lavoro al segretario allora!
* le sintonie sono:
– sui riferimenti alti da Papa Francesco a Mazzolari fino a Berlinguer
– sulla centralità della Conferenza sul futuro dell’Europa
– sul pericolo rappresentato dalle mafie, anche per i 209 miliardi di euro in arrivo
– sul ruolo dei giovani della scuola e del volontariato
– sull’occasione rappresentata dalla presidenza italiana del G20
– sulla ostilità dichiarata verso il trasformismo politico
– sul coraggio a non vivere di rendita. Nemmeno di rendita politica!

Cara Elly Schlein, ho ascoltato il tuo appello, ma non mi ha convinto

Cara Elly Schlein,
ho ascoltato con attenzione il tuo appello “pirata”. Ancora una volta ci ho trovato la tua passione e la tua intelligenza, ma non mi ha convinto e provo a spiegare il perchè.
L’idea di ri-organizzare tutto il campo progressista e non di ridipingere questa o quella casa nella quale fatalmente ci sarebbe sempre qualcuno a sentirsi “ospite” è senz’altro centrale, ma che per farlo serva una rete orizzontale che dia spazio a tutte le migliori energie, ecco questo no. Tu avevi 6 anni quando nel 1991 venne fondata La Rete, venne fondata il primo giorno di primavera (suggestione che poi sarebbe stata utile ad altre fondazioni), venne fondata da persone coraggiose ed appassionate come te alle quali mi legano profondi sentimenti di stima ed amicizia, venne fondata per liberare le migliori energie progressiste dalla trappola ammuffita delle contrapposizioni ideologiche, accese grandi speranze e mobilitò davvero un’onda di partecipazione.
Sarebbe troppo facile ed ingiusto chiosare dicendo che la Rete nel 94 già stava in pezzi, che i suoi leader “pirati” già stavano litigando tra di loro, che di lì a poco la Rete si sarebbe sciolta e che i suoi “nodi” avrebbero preso strade anche molto diverse. Sarebbe ingeneroso chiudere così ed anche politicamente sciocco. Il punto è un altro: al di là della durata della Rete, la Rete ebbe sicuramente un merito storico e dunque politico straordinario, colse in pieno lo spirito del tempo e lo interpretò.
Quale spirito? Quello del dopo ’89, quello della necessità di chiudere i conti della Terza Guerra Mondiale, quello di liberarsi di una classe dirigente che aveva gestito il potere pubblico anche appoggiandosi alla mafia (Leoluca Orlando era stato stretto collaboratore di Piersanti Mattarella). W la Rete!
Oggi una rete pirata orizzontale, un luogo dell’auto rappresentazione delle forze migliori interpreterebbe lo spirito del tempo? Quale tempo stiamo vivendo? Per me il tempo del trionfo del capitalismo globale della finanza, dei dati, dell’energia, della chimica e degli armamenti. Il tempo del trionfo delle grandi organizzazioni criminali di stampo mafioso (quasi mai citate negli elenchi delle priorità) che diventano un subdolo surrogato dello Stato sociale. Come possiamo pensare di entrare nel conflitto per la gestione del potere pubblico con formazioni che abbiano nella propria genetica organizzativa il baco della fragilità, della litigiosità, del personalismo (perchè poi ad un certo punto la rete pirata le liste le dovrà pur fare e tu sai bene cosa succede).
Le democrazie parlamentari nazionali sono già quasi completamente svuotate di capacità di governo, se vogliamo salvare quel che resta e lavorare per ribellarci ad un destino che qualcuno ha già scritto, dobbiamo andare in un’altra direzione. Quel “luogo dove darsi appuntamento” che tu evochi, c’è già ed è il Partito Democratico: fu quello il luogo nel quale dopo un cammino lungo e faticoso durato quasi 20 anni si diedero appuntamento le migliori forze progressiste italiane. Esperimento fallito e morto: io non credo. E non ci credo perchè dopo 25 anni di militanza sociale e politica non credo nel mito della palingenesi, del nuovo inizio ricreativo che supera tutte le contraddizioni precedenti. Ho visto talmente tanti compagni e tante compagne andarsene sbattendo la porta più o meno schifati e sicuri che in un altrove avrebbero costruito la Terra senza bachi, che non ne posso più.
C’è la fatica di stare nei processi e costruire, se ci si riesce, ogni volta un centimetro in più di libertà, di giustizia, senza presunzione, con tanta forza: si chiama resilienza. Da quando sto nel PD ho perso più di quanto ho vinto: fui della mozione Civati, poi della mozione Orlando… infine della mozione Zingaretti. Ho sofferto, come tanti, ma non ho mai pensato di andarmene.
Perchè continuo a credere nel progetto politico messo a fondamento del PD: persino nella vocazione maggioritaria!! E ci credo oggi più di ieri e sai perchè? Perchè noi abbiamo una battaglia politica storica da vincere (o da perdere!), una battaglia che ci darà o meno la possibilità di combattere tutte le altre (ambiente, giustizia sociale, pace, lavoro…) ed è la battaglia per trasformare la claudicante Unione Europea nella Repubblica d’Europa, Repubblica federale fondata sull’uguaglianza di diritti e di doveri.
Solo così potremo avere la possibilità di ri-entrare da protagonisti nel conflitto globale per la gestione del potere, solo così onoreremo la sovranità del popolo e daremo una speranza alla democrazia. Domenica 14 il PD terrà la sua assemblea nazionale (chi altri si può ancora permettere una assemblea del genere?) e ancora una volta faremo del nostro meglio per spingere la notte un passo più in là.
Davide Mattiello
Presidente della Fondazione Benvenuti in Italia

I beni sequestrati e confiscati alla mafia siano il cuore del riscatto italiano

L’Italia da 25 anni ha una legge che il Mondo ci invidia e che ha coronato idealmente la rivoluzione voluta da Pio La Torre: la 109 del 1996 che consente il riutilizzo sociale dei beni confiscati alla mafia. 

Negli anni, grazie al lavoro costante di Istituzioni ed associazioni, il riutilizzo sociale di questi beni si è trasformato in una testimonianza concreta di quanto la Repubblica possa davvero onorare l’ordine impostole dalla Costituzione al comma 2 dell’articolo 3: essere strumento di emancipazione, cioè di liberazione, per tutti e per ciascuno.

Nel percorso che porta un bene dall’essere riflettore del potere mafioso sul territorio ad essere occasione di giustizia sociale infatti entrano in gioco tutte le energie migliori dello Stato e delle organizzazioni civiche: forze dell’ordine, magistratura, organismi centrali come l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati, cooperative, enti locali, associazioni. Si tocca insomma con mano la forza della Repubblica.

Con la riforma del 2017 votata dal Parlamento a larga maggioranza il meccanismo è stato potenziato e c’è soprattutto un punto, tra i tanti, che mi preme ora mettere in evidenza: è stata introdotta la possibilità di affidare temporaneamente i beni già in fase di sequestro, perché non si sprechi l’opportunità di farli diventare da subito epicentro di strategie virtuose di partecipazione, soprattutto (aggiungo io che di quella riforma sono stato relatore alla Camera) pensando al ruolo dei giovani.

Tanto più dopo questo terribile anno segnato dalla pandemia, che ancora non ci siamo lasciati alle spalle, è fondamentale che il Governo immagini interventi che sollecitino e sostengano i giovani a tornare protagonisti della realtà, ad uscire di casa, a spegnere la rete e a sporcarsi le mani, ritrovandosi capaci di trasformare le cose. 

Nella squadra di Governo presentata dal Presidente incaricato Mario Draghi si intravvede un filo rosso tra competenze, annodando il quale si potrebbe lavorare senz’altro in questa direzione: è il filo che passa per i Ministeri dell’Interno, dell’Istruzione, dell’Università e Ricerca, del Lavoro, del Sud/coesione sociale, delle Pari opportunità, delle disabilità, della Transizione ecologica, delle Politiche giovanili. 

Mario Draghi fu ospite di LIBERA nel Marzo del 2011 a Milano, allora con la sua relazione dimostrò di avere un quadro preciso della situazione, un paio di passaggi mi sembrano oggi tornare molto utili alla riflessione:

“Un nostro studio ha documentato come nelle economie a forte presenza criminale le imprese pagano più caro il credito; in quelle aree è più rovinosa la distruzione di capitale sociale dovuta all’inquinamento della politica locale; i giovani emigrano di più; tra di essi, quasi un terzo è costituito da laureati che si spostano al Nord in cerca di migliori prospettive. Quest’ultimo fenomeno è particolarmente doloroso: l’inquinamento mafioso piega le speranze dei giovani onesti e istruiti, che potrebbero migliorare le comunità che li generano e invece decidono di non avere altra strada che partire.”

“Il prezzo che una società paga quando è contaminata dal crimine organizzato, in termini di peggiore convivenza civile e mancato sviluppo economico, è alto. Contrastare le mafie, la presa che esse conservano al Sud, l’infiltrazione che tentano nel Nord, serve a rinsaldare la fibra sociale del Paese ma anche a togliere uno dei freni che rallentano il cammino della nostra economia”.

Abbiamo una nuova occasione per tradurre ancora di più nella realtà queste convinzioni ed avremo bisogno di tutte le migliori energie per riuscirci, allora potremo essere certi che anche in mezzo alla tempesta avremo fatto del nostro meglio per non perdere la rotta.

 

Davide Mattiello

Presidente Fondazione Benvenuti in Italia

Consulente della Commissione Parlamentare anti mafia XVIII Legislatura

Mentre il Governo è in crisi, succede che…

Mentre il Governo è in crisi, succede che utilizzando il nuovo art. 34 del riformato Codice Antimafia oggi sia stata posta in amministrazione giudiziaria la Caronte: la più importante società che gestisce la tratta navale che collega Calabria e Sicilia, società riferita alla famiglia Matacena.

Succede che emergano nuove gravi minacce mafiose contro il giornalista Paolo Borrometi, che proprio non ne vuole sapere di farsi i fatti propri.

Succede che boss mafiosi, colletti bianchi e funzionari infedeli dello Stato brighino per rimettere in piedi quella organizzazione mafiosa che costò la vita al giudice Livatino. E potrei continuare.

Avevo già segnalato con rammarico che nei discorsi pronunciati dall’ex premier Conte alla Camera ed al Senato era mancato completamente un qualunque riferimento che desse la misura della consapevolezza di quanto grave continui ad essere questa mal-vivenza italiana: abbiamo una nuova occasione per fare diversamente.

Ci sono infine altri due fatti che chiudono il cerchio: il successo sui social di certi musicanti che inneggiano a latitanti e codici mafiosi e la dispersione scolastica drammaticamente in crescita a causa della DAD, soprattutto in certi contesti più esposti alla fascinazione mafiosa.

Alla resilienza dei mafiosi e dei loro alleati, dobbiamo saper contrapporre la resilienza della Repubblica.

Confische, riconoscimento reciproco in Europa, ma resta un equivoco di fondo

Il Regolamento UE 2018/1805 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018 relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca è senz’altro una buona notizia.

Bene, ma la strada è lunga ed in salita.

Per tutti coloro che vogliono una Unione Europea più capace di stare al Mondo, più capace di difendere e promuovere questo spazio di libertà e giustizia che non ha precedenti nella storia. Una buona notizia per tutti coloro che ritengono prioritario il contrasto a quelle forme di criminalità che offendono la dignità delle persone e la legittima speranza di vivere in una società aperta e al contempo sicura. Una buona notizia per chi ha compreso la lezione di Giovanni Falcone sulla centralità del denaro nelle strategie delle organizzazioni criminali e di conseguenza sulla necessità di prosciugare la fonte della loro ricchezza per evitare che sopravvivano all’arresto dei loro componenti.

Dietro ad un regolamento come questo ci sono anni di negoziazioni, il lavoro certosino di centinaia di persone, tanta pazienza ed altrettanto coraggio. Per tutto questo il regolamento è una buona notizia che va in scia con la crescente integrazione dei sistemi di prevenzione e repressione in Europa, con buona pace di chi invece lavora nella direzione contraria, per sfasciare l’Unione Europea.

Le riflessioni esposte si basano soprattutto sulle seguenti due considerazioni inserite nel testo ufficiale del regolamento:

1) Il presente regolamento dovrebbe applicarsi a tutti i provvedimenti di congelamento e tutti i provvedimenti di confisca emessi nel quadro di un procedimento in materia penale. «Procedimento in materia penale» è un concetto autonomo del diritto dell’Unione interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, ferma restando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Tale termine contempla pertanto tutti i tipi di provvedimenti di congelamento e provvedimenti di confisca emessi in seguito a procedimenti connessi ad un reato e non solo i provvedimenti che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 2014/42/UE. Esso contempla inoltre altri tipi di provvedimenti emessi in assenza di una condanna definitiva. Benché tali provve­dimenti possano non esistere nell’ordinamento giuridico di uno Stato membro, lo Stato membro interessato dovrebbe essere in grado di riconoscere ed eseguire tali provvedimenti emessi da un altro Stato membro. Il procedimento in materia penale può comprendere anche indagini penali svolte dalla polizia e da altri servizi di contrasto. I provvedimenti di congelamento e i provvedimenti di confisca emessi nel quadro di procedimenti in materia civile o amministrativa dovrebbero essere esclusi dall’ambito di applicazione del presente regolamento.

2) Nel valutare la doppia incriminabilità, l’autorità competente dello Stato di esecuzione dovrebbe verificare se gli elementi di fatto alla base del reato in questione, quali risultano dal certificato di congelamento o dal certificato di confisca trasmesso dall’autorità competente dello Stato di emissione, sarebbero di per sé, nell’ipotesi in cui si fossero verificati nello Stato di esecuzione al momento della decisione sul riconoscimento, penalmente perseguibili anche nel territorio di quest’ultimo.

C’è, mi pare, un solo problema, non nuovo, ma sintomatico.

I “congelamenti” (sequestri) e le “confische” di cui si parla sono appunto quelli che vengono decisi nell’ambito di un procedimento in materia penale.

Questo perimetro esclude la rivoluzione voluta da Pio La Torre e considerata da tutta l’anti mafia una pietra miliare, una rivoluzione irrinunciabile: cioè i sequestri e le confische di prevenzione (che nulla hanno a che fare con i sequestri e le confische preventivi).

Quella di Pio La Torre fu una rivoluzione perché previde il sequestro dei beni al di fuori del procedimento in ambito penale. Detto altrimenti: la confisca senza reato. Di più: l’inversione dell’onore della prova. Lo Stato quando ha il fondato (!) sospetto che un bene sia funzionale al potere criminale (mafioso ma non soltanto) lo sequestra (congela) e domanda al detentore del bene di dimostrare la lecita provenienza del bene sequestrato (inversione dell’onere della prova), qualora il detentore del bene non riesca nell’intento, il sequestro si trasforma in confisca definitiva.

Al reciproco riconoscimento di questo tipo di provvedimento il regolamento pare non arrivare.

Perché?

Forse perché resta nell’ambito delle Istituzioni europee il pregiudizio negativo su questo strumento? Uno strumento che, proprio perché agito al di fuori di un processo penale, è stato spesso sospettato di essere incapace di tutelare adeguatamente i diritti del così detto “proposto” e dei terzi di buona fede. Se fosse questo il motivo inviterei gli attori europei a valutare le modifiche introdotte dal Parlamento italiano al Codice anti mafia con la riforma diventata legge nel 2017. Gran parte delle modifiche introdotte hanno avuto proprio l’obiettivo di “giurisidizionalizzare” maggiormente la procedura di sequestro e confisca di prevenzione, tutelando maggiormente sia i diritti dei “proposti” sia quelli dei “terzi di buona fede”, rendendo di fatto l’intera procedura molto più equilibrata e trasparente.

Se queste modifiche fossero poco o per nulla conosciute in Europa non mi stupirei: nemmeno in Italia lo sono. La riforma del 2017 attirò focose polemiche su alcuni aspetti puntuali, mentre rimase in ombra (non so se per sbaglio o per malizia) la parte più consistente della riforma che riguardava proprio il miglioramento della procedura.

Non voglio nemmeno pensare che invece l’esclusione dei sequestri e delle confische di prevenzioni dipenda da una sottovalutazione della funzione stessa dello strumento, perché in questo caso saremmo di nuovo di fronte ad un equivoco grave sulla radice della forza delle organizzazioni criminali. Soprattutto di quelle più pericolose, che sono quelle mafiose.

Leggi il mio articolo anche su Liberainformazione (clicca qui).

Abbiamo bisogno di più scuola per battere le mafie

Assieme al contrasto delle infiltrazioni mafiose nell’economia, è la scuola il fronte più urgente. Non mi riferisco alle lezioni in presenza o a distanza, ma ai contenuti. Ritengo che i giovani debbano essere formati ad una società democratica e solidale, capace di svilupparsi rispettando la dignità di tutti secondo i valori della Costituzione. La pandemia sta lasciando indietro i ragazzi e le loro famiglie: stanno perdendo di pari passo potere di acquisto ed educativo. Se non si torna alla centralità educativa prevista dalla Carta, il rischio di regalare le giovani generazioni alle mafie è altissimo e questo dobbiamo impedirlo”.

Con queste parole si conclude una lunga intervista rilasciata da Cafiero del Raho a Massimiliano Coccia e pubblicata su L’Espresso di domenica 24 Gennaio.

Sono parole che dovrebbero ispirare l’azione di Governo molto di più di quanto non stia accadendo: sarebbe stato importante ascoltare un passaggio simile nei discorsi del presidente Conte alla Camera ed al Senato la scorsa settimana.

Sono parole illuminanti perché colgono il punto dirimente nell’irrisolto conflitto tra mafie e Repubblica: la forza delle mafie sta in un certo modo di stare al Mondo che purtroppo fa scuola, è di moda e rappresenta un serbatoio culturale velenoso ma seducente. Le mafie si sconfiggono facendo prevalere definitivamente un altro modo di stare al Mondo, quello effettivamente descritto dalla nostra Costituzione.

Una Costituzione che essendo anti-fascista è anti-mafiosa e questa non è una forzatura retorica perché fascismo e mafia hanno la stessa matrice culturale, quella suprematista e discriminatoria. Per fascisti e mafiosi gli esseri umani non sono tutti uguali in dignità, perché ci sono umani di serie A a cui tutto è dovuto e umani di serie B che devono ubbidire o morire.

La nostra Carta essendo antifascista si premura di rompere con il suprematismo discriminatorio proprio attraverso i primi quattro articoli ed in particolare con il secondo comma del terzo articolo che ordina alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che di fatto generano disuguaglianze ingiuste.

Quelle di Cafiero de Raho sono parole che provocano tanto quanto quelle celebri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che disse a Bocca “Lo Stato assicuri ai cittadini quei diritti che altrimenti verranno dati dalla mafia in forma di favori”, proprio perché pronunciate da persone ai vertici degli apparati repressivi dello Stato, persone da cui si sarebbero potute sentire ben altre conclusioni, persone che invece di chiedere la militarizzazione del territorio o affini, chiedono, parafrasando Falcone “Un esercito di insegnanti”.

Abbiamo bisogno di più scuola, di scuola sicura, di scuola aperta ed alternativa all’altrove e alla strada, ma anche di scuola in strada, di scuola bella al punto da diventare attrazione turistica. Che rivoluzione sarebbe, girando per città, non restare meravigliati di fronte alle vestigia del potere, ma di fronte ad una scuola pubblica!

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In memoria di Guerino Capolicchio, morto ieri.

Era il papà di Dario Capolicchio, il giovane studente di architettura ucciso dal tritolo mafioso in Via dei Georgofili a Firenze la notte tra il 26 ed il 27 maggio 1993. Era un uomo indomito.
Quando fondammo Libera nel Ponente ligure lui decise di rimettersi in gioco, di scommettere su quei giovani che davano l’impressione di non essere fuoco di paglia: ebbe ragione.
“Condoglianze” è una bella parola, purtroppo spesso svuotata dalla routine e dall’imbarazzo, che significa: “soffro con te. Il tuo dolore è anche il mio”. “Condoglianze” si esprimono alla famiglia del morto, ma “Condoglianze” si condividono anche accompagnando i vivi cui la mafia ha strappato un amore. Non c’è, o almeno io non la trovo, una parola per dire “la tua rabbia è anche la mia rabbia”, perché se ci fosse ora userei quella. La rabbia di chi non trova giustizia, pur avendola cercata con tutte le proprie forze, pur avendo avuto fiducia nello Stato. La rabbia di chi capisce che la verità viene taciuta perché dirompente, non perché impossibile. Quando ho saputo della morte di Guerino ho pensato ad Augusta: come si fa a sopravvivere all’assassinio del proprio figlio? Cercando la verità.
Maledetti i mafiosi che tanto sangue innocente hanno versato e che ancora oggi se parlano non lo fanno per un ripensamento, ma per continuare il gioco viscido dei ricatti. Maledetti i conniventi, annidati anche nello Stato, che hanno preferito portarseli in casa anziché denunciarli. E poveri noi se ci rassegniamo alla verità “sostenibile”, se rinunciamo a fare Repubblica, crogiolandoci al sole di qualche balcone.
In memoria di Guerino Capolicchio, c’è solo l’impegno. Ultimamente Guerino aveva raccolto tutto quello che aveva capito in due grandi libroni, scritti a mano (!), densi di ritagli, di foto e di brani di libri: uno lo ha affidato ai ragazzi di Libera di Sarzana, l’altro a me. Oggi riparto da qui.

Testimoni di Giustizia: il nuovo regolamento rischia di sminuirli

Dovrei essere soddisfatto ed invece sono preoccupato.

Con la Legge 6 del 2018 il Parlamento approvava all’unanimità la riforma del sistema di protezione dei Testimoni di Giustizia alla quale avevo lavorato per quattro anni, insieme alla Commissione Antimafia. Il 21 Dicembre 2020 in Gazzetta arriva la pubblicazione di uno dei regolamenti attuativi più attesi, quello relativo alla possibilità di essere assunti nella PA. La misura è alternativa alla capitalizzazione ma è bene ribadire che entrambe le misure devono sempre essere ispirate al principio di fondo: servono a mettere il Testimone e gli altri protetti con lui nelle condizioni concrete più idonee a riprendere una vita libera e dignitosa.

La capitalizzazione è dunque una ragionevole alternativa se raggiunge questo obiettivo in concreto e non a prescinderne (perché calcolata secondo valori standard). E viceversa: l’assunzione nella PA è una alternativa ragionevole se in concreto rappresenta una opportunità non soltanto coerente alle competenze e alla sicurezza, ma anche alle aspettative di vita del testimone, aspettative di natura economica e non solo.

La burocrazia è prevedibilità ma non disumanità. Ma la preoccupazione cresce in assenza nel regolamento di una previsione ritenuta necessaria da tutti coloro che ci lavorarono fino al 2018: i Testimoni usciti dal programma PRIMA della riforma, che quindi non hanno potuto scegliere, devono essere ‘rivisitati’ dallo Stato che deve verificare se abbiano ritrovato autonomia e serenità attraverso la capitalizzazione oppure no e nel caso se sia opportuno farli rientrare nel programma di assunzione nella PA. Sono poche persone, ma persone che hanno scritto una pagina di storia in questo Paese. Un Paese dove non mancano le parole di denuncia contro le mafie, non mancano gli appelli al senso civico dei cittadini, invitati a denunciare, ma dove rischia di difettare il dovere della riconoscenza verso chi poi abbia preso sul serio lo Stato, oltre che la propria indomita coscienza.

Stimato Vladimiro Zagrebelsky, la satira serve a denudare il “Re”

Stimato Vladimiro Zagrebelsky,
mi aiuti a capire, perché c’è un passaggio nel suo editoriale di ieri “Quando la satira si rifiuta di essere responsabile” che mi pare pericoloso.
Ma andiamo con ordine.
Difendere la laicità delle Istituzioni repubblicane significa assicurare una patente di impunità a quella particolare forma di libertà di espressione che è la satira? Certo che no ed il suo editoriale su questo è preciso e convincente. Abbiamo imparato che l’avverbio meno democratico che esista è “assolutamente”: in democrazia nessuna libertà è assoluta, cioè irriconoscente un limite. È vero il contrario: ogni diritto, ogni libertà, in democrazia presuppone il riconoscimento di un limite, di un dovere. Anche la libertà di espressione, la cui manifestazione può quindi sempre essere criticata duramente ed anche sanzionata giudiziariamente. E questo vale anche per le vignette satiriche di Charlie Hebdo.
Qual è il punto che mi suona pericoloso? Quello nel quale lei scrive:
“Il dovere di responsabilità implica l’attenzione alle conseguenze, anche a quelle che non si possono giustificare, ma che si provocano. Non si tratta di rinunciare ad una propria libertà, ma di gestirla, modularla e attuarla evitando posture narcisistiche indifferenti agli effetti sugli altri. Non è grave gettare a terra un cerino. Ma non ignorando di essere in un pagliaio”
A leggere queste parole mi è tornato in mente Peppino Impastato, quando dalla emittente radiofonica Radio AUT prendeva in giro niente meno che don Tano Badalamenti, chiamandolo “Tano Seduto”. Anche a Peppino dicevano che stava tirando un cerino in un pagliaio perché era ovvio che prima o poi i mafiosi avrebbero reagito secondo la loro natura e gliela avrebbero fatta pagare. Perché appunto: era nella loro natura. Un po’ come quando il sette volte Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, commentando l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, disse che era una che “se l’andava a cercare”. Un po’ come quella preside che tentò di proibire le gonne corte delle allieve perché agli insegnanti “ci cadeva l’occhio”. Non ci si può autocensurare presupponendo la naturale reazione violenta di alcuni dei destinatari della propria espressione. Anzi talvolta la provocatorietà della espressione serve proprio a far saltare fuori il demone della violenza, a smascherarlo. La satira serve a denudare il “Re” qualunque esso sia, per capire di che pasta è fatto, di quale reazione è capace. In questo senso non è tanto un cerino gettato in un pagliaio, ma un osso gettato nel buio.
Davide Mattiello
Presidente Fondazione Benvenuti in Italia
Consulente della Commissione parlamentare antimafia

Autopsia di Simone Canale: l’importanza di guardare anche contro luce

Oggi a Simone Canale fanno l’autopsia.
Simone aveva una quarantina d’anni, ‘ndranghetista legato alla cosca Alvaro, decide saltare il fosso e diventa collaborare di giustizia, per questo sottoposto a speciale programma di protezione. Dal programma aveva deciso di andarsene (perché?) ma questo non aveva fatto venire meno il suo ruolo di testimone nei processi (alcuni tra i più importanti che si celebrano a Reggio Calabria) e quindi il dovere dello Stato di proteggerlo a prescindere (come?), perché il diritto alla sicurezza non è ‘on demand’ e nemmeno l’interesse pubblico alla celebrazione dei processi.
Qualche giorno fa è stato trovato morto in casa, nonostante stesse bene. Oggi Simone è su un tavolo autoptico perché il suo avvocato non ha accettato il primo rifiuto della Procura di Biella (sì, stava a Biella in Piemonte!) alla richiesta di autopsia, ritenuta superflua (perché?). L’insistenza dell’avvocata Conidi ha provocato un ripensamento e l’autopsia è stata disposta. Ecco qual è il tema: la perseveranza nel porre domande, senza cedere allo smarrimento che il complicato mondo Mafia-Anti-Mafia spesso genera.
Faccio un altro esempio. Ieri è stata condannata dal Tribunale di Caltanisetta in primo grado ad 8 anni la ex giudice (non hanno radiato soltanto Palamara!) Silvana Saguto che avrebbe abusato sistematicamente del sul ruolo di Presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Io voglio sapere a questo punto se Pino Maniaci, l’insopportabile e spudorato Pino Maniaci (lo sapevo anche prima delle intercettazioni) è un criminale dedito alle estorsioni, oppure è stato vittima di una vendetta da parte di pezzi infedeli delle Istituzioni. Magari non sarà il più ‘clamoroso caso di depistaggio della storia italiana’ ma meriterà pure un chiarimento.